L’eterno ritorno dell’immagine e la vertigine della modernità. Per una rilettura dei Canti orfici
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Interventi
Gianni Turchetta
Università degli Studi di Milano
Può sembrare un’ovvietà dire che è necessario indagare ancora sul testo dei Canti Orfici. Quest’affermazione diventa però meno ovvia se precisata così: è necessario tenere conto fino in fondo dell’unità strutturale, profonda, del “libro” di Campana. Nonostante la sua relativa incompiutezza, le sue dolorose peripezie biografico-testuali, il variantismo coatto che spinge Campana a introdurre varianti persino sulle copie a stampa, i Canti Orfici sono, come ha sottolineato Mario Luzi, “il libro più libro, più «oeuvre»” del Novecento poetico italiano. Partiremo dunque dall’unità macro-strutturale degli Orfici, cercando di capire meglio come in essa prenda corpo, in modo particolarmente radicale, il progetto di una poesia come processo e come messa in scena di un’esperienza nel suo farsi. Vedremo poi come lo stesso impiego onnipervasivo dei procedimenti di ripetizione sia piuttosto una compresenza sistematica di ripetizione e variazione, che genera, vertiginosamente, infiniti rimandi interni, da cui deriva non certo una dissoluzione del senso, ma, tutt’al contrario, una densissima polisemia. È importante sottolineare con forza che le figure di ripetizione toccano il testo a molti livelli, coinvolgendo unità di ogni dimensione, a cominciare da quelle al di sotto dell’unità di parola, per arrivare fino alle frasi, ma anche ai nuclei narrativi. È difficile negare la complessità di questa macchina testuale. Ma è anche impossibile negare che il coinvolgimento che la poesia di Campana continua a provocare non può essere l’esito di un destino patologico, idiosincratico e inafferrabile: viceversa questo coinvolgimento è il segno della sua capacità di mettere in scena, con straordinaria intensità, le ambivalenze di una società intera, di quella modernità che non ha ancora smesso di essere la nostra.
Responsabile
Carlo Santoli
Università degli Studi di Salerno